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Perin: “Il portiere deve saper aspettare il suo momento”

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Circa un mese e mezzo fa, il portiere del Genoa Mattia Perin rilasciò una lunga intervista alla Rivista Undici, e ve ne riportammo alcune parti in anteprima (CLICCA QUI per leggerle). Adesso potete leggere l’intervista completa al numero 1 del Grifo sul sito della rivista, e ne vale davvero la pena. Vi riportiamo i passaggi più interessanti.

La gavetta, l’anno al Pescara, fino alla convocazione ad un Mondiale.

Per me è stato un anno importante, perché venivo dagli anni della Primavera, in cui si è sempre parlato di me benissimo, l’anno a Padova dove ho giocato quasi 30 partite e ho vinto il premio come miglior portiere della Serie B; poi sono andato a Pescara e, tra virgolette, a diciotto-diciannove anni mi sembra che tutto mi fosse dovuto. E invece quell’esperienza mi ha fatto che capire che nulla mi è dovuto, che devo lavorare tutti i giorni per poter arrivare all’obiettivo che mi sono fissato.

Ho vissuto tutto con entusiasmo e spensieratezza. Perché dici: sì mi hanno convocato Nazionale, ma devo dimostrare che comunque sono bravo. Non è che ti soffermi sulla convocazione. Non è che se una domenica faccio una grande partita mi dico: oh, quanto sono stato bravo oggi. No, invece dico: cazzo, ho fatto bene oggi, ma domenica prossima giochiamo di nuovo e devo fare bene anche domenica prossima, non voglio che tutti pensino che sia un caso”.

Come ha deciso di diventare portiere.

Nel condominio di casa mia erano tutti più grandi di me e io, quando mia madre ha cominciato a lasciarmi scendere per giocare, avevo cinque o sei anni, ero il più piccolo e quando mi passavano la palla la stoppavo con le mani. Allora mi hanno detto mettiti in porta, e io mi sono sempre divertito. Avevamo i campi fatti con i parcheggi, sul cemento. Io mi buttavo sul cemento, mi piaceva un sacco. L’anno dopo andai a iscrivermi a scuola calcio e dissi: Io voglio fare il portiere sennò mi vado a iscrivere da un’altra parte. E loro mi dissero: No guarda, siamo contenti, non c’è nessuno che vuole fare il portiere”.

La solitudine dei portieri.

Ci vuole coraggio anche a stare da soli. L’essere umano non è creato per stare da solo. Io sono più contento in compagnia con voi che se sto da solo. Il portiere è poco legato all’azione dei compagni e se la squadra attacca non è che posso andare a segnare. Non è che se entro teso in campo posso fare come un centrocampista che corre e con una scivolata smorza la tensione. Il portiere deve aspettare il suo momento. Quindi è anche una questione di pazienza.

Una cosa che mi aiuta a star sempre concentrato è cercare di leggere quello che sta per fare un mio compagno. Tipo, se Bertolacci ha la palla a centrocampo io penso: adesso che fa? La lancia, fa il passaggio filtrante per Perotti, si appoggia all’altro centrocampista? Mi dico: secondo me adesso fa questo, e se non lo fa dico: bravo, bravo lo stesso. Sono delle cose che mi aiutano a star dentro la partita, ad essere collegato”.

 

CLICCA QUI per continuare a leggere l’intervista su www.rivistaundici.com

 


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